Persone, non reati che camminano

di Alberto Morino

“Ristretti orizzonti” è il nome della rivista bimestrale realizzata dalla Casa di Reclusione di Padova e dall’Istituto Penale Femminile della Giudecca. Della redazione fa parte un nutrito gruppo di detenuti di Padova.  “Ristretti orizzonti” assicura anche una rassegna stampa quotidiana sui temi della realtà penitenziaria, disponibile in rete, ampiamente consultata e utilizzata dai nostri volontari.

Nell’ormai lontano giugno del 1998 uscì il primo numero, e da allora la pubblicazione non si è mai interrotta.

Ornella Favero si avvicina al carcere in modo quasi casuale. La sorella, insegnante interna, la invita a tenere, quale giornalista, un ciclo di incontri con i detenuti sul tema dell’informazione. Dopo quella occasione il caso lascia il posto alla determinazione. Ornella diviene volontaria in carcere, è dall’inizio fondatrice e direttrice della rivista, di cui coordina la redazione, ma diviene anche molto altro. Nello scorso autunno il molto altro le viene in parte riconosciuto con l’elezione a presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia.

“A scuola di libertà”, incontri con gli studenti, non solo nelle scuole ma anche in carcere, è un’iniziativa di “Ristretti”, che nel corso degli anni ha coinvolto un numero elevato di ragazzi delle medie inferiori e superiori. Questo coinvolgimento è diventato una forza e una garanzia per la tenuta dell’attività: anche l’ultima giunta, leghista, eletta al comune di Padova ha dovuto mantenere il finanziamento comunale al progetto.

Ogni anno, oltre alle uscite periodiche, viene preparato un numero speciale a tema. Nel 2007 lo speciale è stato dedicato alla Giornata di studi “Persone, non reati che camminano”.

Questo il tema principale affrontato da Ornella nel nostro incontro di lunedì 11 gennaio. Della necessità di avvicinarsi alla persona e non al suo reato è stato testimone  con la sua presenza Bruno, ora redattore, che la ha accompagnata e che ha parlato della sua esperienza. Persone, non reati che camminano. E persone che non solo appaiono, ma sono “normali”, possono venire da situazioni sociali “normali”, da famiglie “normali”, dove fino ad allora non si è manifestata nessuna deriva. In famiglia i genitori prendono in considerazione la possibilità per i figli di una malattia, di un incidente stradale. Non capita invece in genere che contemplino la possibilità che i figli incappino nel reato. Al quale per altro, insiste la Favero, ci si può avvicinare improvvisamente, senza una spiegazione che appaia alla nostra portata, ma anche attraverso un percorso di scivolamento progressivo fatto di passi ognuno dei quali di per sé non rilevante. In qualche modo, non solo il “reo” ci riguarda, ma  possiamo dire che il reo siamo noi; siamo anche noi. La volontaria, il volontario non devono sentirsi qualcuno che fa del bene ad altri che sono estranei al corpo sociale. Chi esercita il volontariato prima di tutto si occupa di se stesso. Per quanto si allontanino gli edifici di detenzione dalla nostra vista quotidiana, spostandoli dal centro cittadino a lande desolate, come nel caso di Sollicciano, il problema della marginalità, e quello della devianza per scivolamento, e ancora quello della svolta improvvisa, che ci può rendere rei senza averlo previsto e, forse, nemmeno propriamente voluto, restano virtualmente presenti nelle nostre esistenze, che ne siamo consapevoli o no.

Altre informazioni utili, non solo al confronto e alla riflessione, ma anche alla attività di volontariato, sono state quelle relative al percorso di chi ha raggiunto, come nel caso padovano, risultati importanti. In particolare, sul rapporto degli amici di “Ristretti” con le istituzioni, che spesso, chi fa volontariato lo sa bene, si rivelano l’ostacolo più difficile da superare. E non si parla solo del corpo di polizia penitenziaria, ma della direzione degli istituti (a volte divisa fra più incarichi, di fatto latitante); e anche dell’area educativa. Proprio in chi dovrebbe offrire la massima collaborazione al volontariato, sentendolo come alleato privilegiato, capita invece che si evidenzino posizioni di chiusura, se non addirittura di boicottaggio. Per quanto riguarda la direzione, Ornella ci ha spiegato che c’è stata un’azione pedagogica (“li abbiamo dovuti educare”, questi i termini utilizzati) che un po’ per volta ha spostato le posizioni iniziali e ha portato ad aperture, che sono state conquiste e non gentili concessioni. Abbiamo rifiutato, lei dice, di essere considerati ospiti: i volontari sono la società che ha diritto di entrare in carcere. Quanto all’area educativa, secondo Ornella, non c’è mai stata una riflessione interna sul ruolo e sulla figura dell’educatore. Il quale per lo più è ripiegato su una concezione “tradizionale” del ruolo, che prevede come centrale un periodo di osservazione (!) del detenuto di nove mesi (singolarmente lo stesso tempo di una gravidanza), ma prolungabile (e spesso prolungato) a discrezione. Concezione “tradizionale” che si accompagna a un timore per tutto ciò che è nuovo, in termini di contenuti e di proposte.