Ogni cella ha la sua pena e a decidere è il direttore

LE LORO CARCERI – Regole che cambiano di istituto in istituto a seconda dell’amministrazione penitenziaria. A Novara, a lungo, i pacchi portati dai parenti potevano contenere cibo solo se con vestiti, in ugual peso. Nessuna norma vieta ai reclusi di suonare. Spetta a chi dirige riempire di senso il dettato costituzionale

Patrizio Gonnella Edizione del 31.05.2017 il manifesto

Non è la stessa cosa finire in un carcere piuttosto che in un altro. Chiunque abbia a che fare con il diritto sa che la sua capacità d’impatto, positiva o negativa sull’esistenza delle persone, dipende da chi nelle aule di giustizia, o ancor prima nell’amministrazione quotidiana, dovrà interpretarlo. Le norme in carcere vengono tradotte in ordini di servizio che disciplinano, in senso letterale, la vita dentro. Dagli ordini di servizio trasuda la cultura giuridica e umanistica degli operatori penitenziari. È questa che a sua volta trasforma un istituto di pena in un luogo “normale” oppure “anomalo”, in un posto dove la vita segue decisioni ragionevoli o il cui unico senso è quello meramente punitivo.

Molto di quello che accade in un carcere, a volte troppo, è affidato alle decisioni discrezionali di chi lo gestisce, tendenzialmente il direttore in sinergia con il commissario di polizia penitenziaria che ha la funzione di comandante di reparto.

OGNI DETENUTO, PER LEGGE, può fare fino a sei ore di colloquio al mese con un proprio congiunto. In un carcere può accadere che il direttore autorizzi ragionevolmente più ore consecutive di colloquio visivo nella stessa mattinata; in un altro invece il colloquio con una moglie, un figlio, un fratello dura inderogabilmente soltanto un’ora anche se il familiare arriva da terre lontane e per quell’unica ora è costretto a spendere fino a trecento euro di viaggio e prendersi un giorno di ferie. In un carcere è possibile incontrare un amico fraterno, in un altro no. In un carcere è possibile fare colloqui di domenica, in un altro no. Può succedere che in un carcere i parenti della persona reclusa siano autorizzati a consegnargli un pacco con dentro una banale mozzarella, nell’altro invece può portargli solo prodotti alimentari confezionati e a lunga conservazione. In buona parte degli istituti penitenziari un detenuto può ricevere vestiti o cibo dai propri cari nelle quantità di peso massime previste dalla legge ma senza rigidità nella composizione dei pacchi.

A Novara invece per un lungo periodo pare che la direttrice consentisse la ricezione di pacchi portati dai parenti solo se contenevano cibo in peso uguale o inferiore a quello dei vestiti. Una disposizione il cui senso è difficile da cogliere, se non quello di complicare la vita dei parenti in visita. Costoro mai avrebbero potuto portare solo cibo o più cibo che vestiti, pur sempre rispettando il peso massimo del pacco così come previsto dalle norme. Interpretazione bizzarra. I poveri parenti che arrivavano a Novara, facendo anche mille chilometri con vari cambi di treno in un giorno solo per poter vedere i loro cari, se volevano portare dieci chili di cibo dovevano portare anche almeno dieci chili di vestiti, anche se questi al detenuto non servivano per nulla. «Ho tre cambi treno e sono obbligata a trascinarmi 20 chili di peso quando potrei portare solo 10 chili di alimenti in quanto porto il vestiario solo nei cambi stagione. Finito il colloquio mi viene restituito dal mio familiare lo stesso vestiario utilizzato solo per far passare il cibo».

IN UN CARCERE LA GRAN MASSA dei vestiti viene portata in occasione dei cambi di stagione. Non a tutti servono abiti o vestiario tutte le settimane. La direttrice del carcere di Novara ha a lungo, fino a quando il caso non è divenuto pubblico, interpretato in modo discutibile la norma sui pacchi presente nell’ordinamento penitenziario. Un’interpretazione che fa male alle persone e che produce sofferenze a chi ha già il peso sulle spalle della carcerazione di una persona cara. Poche settimane dopo, sempre a Novara, sono state introdotte altre disposizioni a dir poco “discrezionali” nei confronti dei detenuti. Pare che non si possa andare in cortile a passeggiare nelle ore d’aria portandosi il quotidiano da leggere (che male fa?) e che non si possa andare sotto la doccia portando con sé sia l’asciugamano che l’accappatoio ma è necessario scegliere tra i due (perché?).

L’Italia carceraria è un Paese frammentato, a macchia di leopardo. A un’ora da Novara, a Milano nel carcere di Bollate, grazie all’intuizione di dirigenti dalla visione profonda (cito chi l’ha pensato, Luigi Pagano, chi l’ha diretto per tanti anni, Lucia Castellano, e chi lo dirige ora, Massimo Parisi), la vita in carcere è modellata secondo parametri di normalità. Da anni una band composta da detenuti e straordinariamente seguita da un agente di polizia penitenziaria, Francesco Mondello, registra e ci invia una cover dell’autore musicale la cui storia raccontiamo nella trasmissione radiofonica Jailhouse Rock, insieme a Susanna Marietti. Nessuna norma consente ai detenuti di suonare. Nessuna norma lo vieta. Spetta a chi dirige un carcere riempire di senso quanto la Costituzione prescrive all’articolo 27 («Le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»).

PRASSI GIURISPRUDENZIALI più o meno estensive possono essere decisive nel percorso di reintegrazione sociale di un detenuto. La legge prevede che «ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolose il magistrato di sorveglianza, sentito il direttore dell’istituto, può concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. La durata dei permessi non può superare complessivamente quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione». Niente la legge dice su quanto tempo deve trascorrere tra un permesso e un altro. I detenuti potrebbero preferire 45 permessi di un giorno, piuttosto che tre permessi annui di 15 giorni. Alcuni magistrati di sorveglianza del Tribunale di Roma pare prevedano che debbano trascorrere almeno 45 giorni tra un permesso e l’altro. Interpretazione che a prima vista appare solo funzionale a bisogni organizzativi degli uffici e non di certo alle regole dell’individualizzazione del trattamento. Potrebbe ben accadere che nell’arco di quei 45 giorni il detenuto avesse voglia di incontrare più volte il proprio figlio piccolo appena nato.

Come ogni anno Antigone pubblica il suo rapporto annuale sulle carceri (consultabile sul sito www.associazioneantigone.it). Di questi cattivi usi interpretativi abbiamo voluto dare conto. Da loro molte volte dipende la vita e la salute delle persone detenute.

(Viaggio nelle carceri italiane 3/p. continua. Le precedenti puntate sono del 18 maggio e del 24 maggio scorsi)

Da: https://ilmanifesto.it/se-la-pena-e-discrezionale-e-a-decidere-e-il-direttore/

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Le sbarre nei sogni d’infanzia. Vite di donne e bimbi reclusi

LE LORO CARCERI – L’Università Roma Tre organizza un corso di studi nel braccio femminile di Rebibbia. Nel penitenziario romano Erri De Luca e Piero Pelù hanno presentato il film «Tu non c’eri»

Patrizio Gonnella Edizione del 24.05.2017 il manifesto

Sarebbe bello un giorno avere tempo, tanto tempo, per raccontare le storie, tragiche, assurde, tristi di chi finisce in carcere. Biografie che ci aiuterebbero a comprendere fino in fondo quanto il sistema penale sia selettivo, classista, crudele, cieco. Le storie di donne detenute sono ancora più esemplari, rispetto a quelle dei maschi. Le donne in carcere sono meno del 5% dell’intera popolazione detenuta. In quanto poche, si potrebbe partire da loro nella costruzione di un grande archivio di storie di vita spezzate dalla reclusione.

Il carcere femminile è per sua natura meno rude di quello maschile. Le storie che si incontrano non sono però meno tragiche. Vi si trovano donne condannate ingiustamente in quanto ritenute complici di reati infami, mogli di uomini anche loro ristretti in prigione, madri di bambini i quali a volte vivono fuori con i loro nonni altre volte sono dentro nei primi anni di vita reclusi, da innocenti, insieme alle loro mamme.

SE SI TRASCORRE una settimana in una prigione di storie se ne incrociano tante. Questa opportunità è stata data a me e a trenta studenti dell’Università di Roma Tre iscritti al corso di «prison law clinic», un corso nel quale si studiano casi e si cercano risposte, soltanto a volte legali, più spesso di buon senso. Nel carcere femminile di Rebibbia abbiamo tenuto un intero corso universitario grazie alla disponibilità della direttrice e di operatori che non si sono fatti consumare dal burn out che colpisce chi lavora in luoghi così duri e stressanti e hanno mantenuto intatte motivazioni e passione. Motivazioni e passione che, in quei giorni densi e ricchi, sono stati trasmessi a giovani studenti, anche loro motivati e appassionati. Sperando che un giorno venga bandito un nuovo concorso per direttore penitenziario. Sono vent’anni che non si assume nessuno.

A REBIBBIA FEMMINILE ci sono 330 donne detenute di cui più della metà straniere. Tutti i giorni gli agenti di polizia penitenziaria ci accoglievano in portineria, prima sorpresi e poi simpaticamente abituati a questo gruppo di ragazze e ragazzi che andavano a studiare in prigione, dotati di sola penna e quaderno, come nei tempi passati, visto che dentro cellulari, tablet e pc non potevano essere portati. La classe era nel reparto detentivo e ogni giorno educatrici, insegnanti, detenute ci hanno raccontato storie vere. Storie di processi finiti male, di detenute che vogliono ritornare nel loro Paese d’origine ma, nonostante tutta la retorica più becera sull’immigrazione, non ce le mandano, di detenute straniere che invece vorrebbero restare in Italia e che probabilmente a fine pena saranno espulse.

POCHI GIORNI PRIMA A REGINA Coeli, carcere maschile, davanti agli occhi stupiti e dispiaciuti della stessa direzione un detenuto peruviano, definito detenuto modello, tanto che gli era stato concesso di lavorare all’esterno, con due figli che vivono in Italia, è stato espulso. Aveva prospettive di lavoro concreto una volta espiata la pena. Fuori aveva due figli da mantenere e da amare. Ma la legge è inflessibile. Via dall’Italia. Altro che bel Paese. Altro che pena che deve tendere alla rieducazione. Ora i figli sono in Italia e lui in Perù. È stato così realizzato un capolavoro di umanità. «Ero straniero, l’umanità che fa bene» è una campagna, promossa tra gli altri dalla radicale Emma Bonino e don Virgilio Colmegna, per una legge di iniziativa popolare che vuole cambiare la narrazione sull’immigrazione, modificando le parti peggiori della legge Bossi-Fini. La nostra politica sull’immigrazione, stupida e cattiva, caccia chi vuole restare e trattiene chi se ne vuole andare.

NEL CARCERE FEMMINILE di Rebibbia l’atmosfera non è pesante. Chi lo dirige prova a trasmettere calma e serenità. Quando Piero Pelù ed Erri De Luca hanno presentato un cortometraggio tratto dal bellissimo racconto «Tu non c’eri» intorno al rapporto padre-figlio, nel teatro si respirava un’aria libera, normale, non di censura. Le detenute prendevano la parola e dicevano quel che loro pareva, le poliziotte cantavano insieme a Pelù che si accompagnava con la chitarra elettrica di mio figlio Nicola, che l’aveva lasciata scordata. Uno squarcio di vita normale, non finto o artefatto. Di solito ciò in un carcere accade quando dentro non regna la paura. Bisogna sempre diffidare di un istituto dove regna il silenzio perché vuol dire che quella prigione è governata con il terrore.

Mentre gli studenti di Roma Tre seguivano il loro corso universitario, le detenute andavano a scuola. Una di loro, di origine rom e non giovanissima, ci ha raccontato in modo entusiasta le mille cose imparate nella loro classe di scuola media. Ci diceva che per la prima volta si trovava dietro un banco di scuola.

È questo un carcere modello? Carcere modello è una brutta parola. Il carcere è sempre carcere. Non può che essere sofferenza, essendo inevitabilmente una pena. È privazione non solo della libertà. Ma ha il dovere di non imporre sofferenze inutili, ulteriori, gratuite. Purtroppo in molte carceri d’Italia, invece, si pensa che i custodi siano arbitri della vita dei loro custoditi. Quando capita invece di trovare chi gestisce un carcere secondo ragionevolezza, ispirandosi ai principi di responsabilità e normalità, ci si sorprende.

Studiare fa bene. Eppure non è mai stato indagato in Italia il rapporto tra sicurezza e educazione, tra l’istruzione in carcere e il tasso di recidiva. Gli studi statistici sulla recidiva sono pochi e non sempre approfonditi.

MI È CAPITATO DI INCONTRARE professori universitari, indignati e seccati perché costretti ad andare a fare esami in carcere. Non sempre l’accademia considera le carceri luoghi di insegnamento. A Roma, fortunatamente, invece, ciò avviene. Grazie alla determinazione del prof. Marco Ruotolo, l’Università di Roma Tre ha addirittura organizzato un Open Day presso il carcere romano di Rebibbia (quello maschile questa volta) in modo da illustrare ai detenuti la complessa offerta formativa proposta. Un’offerta che si compone di tanti tasselli.
Una offerta alla quale potranno aderire anche le donne, sperando che un giorno si superi lo steccato e possano studiare, maschi e femmine, in una stessa aula. Nella vita normale, d’altronde, ciò accade.

(Inchiesta sulle carceri italiane 2/P. Continua)

Da: https://ilmanifesto.it/le-sbarre-nei-sogni-dinfanzia-vite-di-donne-e-bimbi-reclusi/

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