Giustizia: che cosa si può fare per abolire il carcere

di Gustavo Zagrebelsky

La Repubblica, 23 gennaio 2015
Il carcere non è semplicemente privazione della libertà, come nel caso di un sequestro di persona. È qualcosa di qualitativamente diverso. Il sequestrato sa che la sua condizione è arbitraria e deve cessare il più presto possibile e che, fuori, c’è chi si dà da fare a questo fine. La vita continua nell’attesa. Una volta c’erano i “canta-cronache”.
Un bellissimo testo di vita e d’amore del 1959 – autore Fausto Amodei, contiene una lezione di filosofia morale che nell’ultimo verso dice: “Basta che non ci debba mai mancare qualcosa d’aspettare”. Ciò che possiamo aspettare è ciò che trasforma la mera esistenza biologica in vita. Vorrei ricordare una considerazione che viene da un uomo che il carcere l’ha conosciuto davvero e a lungo, Vittorio Foa.
Per il detenuto comune non sorretto da una fede religiosa o politica, dice, “non c’è futuro. La speranza di salvezza viene meno. Il tempo si svuota. Si ripensa il passato o ci si rappresenta il futuro come in un’esteriore contemplazione priva di legami con la volontà ormai assente. (…) Le privazioni materiali del carcere sono poca cosa o comunque cosa alla quale l’organismo umano si adatta con facilità, (…) il peso reale della detenzione consiste solo nel progressivo svanire della volontà col decorso del tempo”, cioè nella decomposizione dell’essere umano in conseguenza dell’espropriazione e della nullificazione del tempo (Psicologia carceraria, in il Ponte, 1949, pagg. 299 e sgg.).
Il possesso del tempo della propria vita non è precisamente ciò che distingue gli esseri umani dalle cose che non hanno tempo e dagli animali la cui esistenza è ancorata agli istanti di un continuo presente privo di prospettiva? Per questo, la conciliabilità del carcere con la dignità umana appare un’illusione: una nobile illusione, ma pur sempre illusione.
Si potranno mettere in atto tutte le misure possibili per alleviare le sofferenze e rendere sopportabile la condizione carceraria, ma non si potrà eliminare l’amputazione del primo diritto dell’essere umano: il diritto al proprio tempo. Nel nudo concetto del carcere percepiamo con turbamento questa mutilazione di umanità, ogni volta che mettiamo piede in uno “stabilimento penitenziario” o anche, soltanto, passiamo a fianco di muraglioni, grate e bocche di lupo (dove ancora esistono) e pensiamo al mondo che esiste al di là, fermo mentre tutto il resto scorre. Si dirà: ma le cose non stanno così.
Il regime penitenziario è oggi molto più complesso di quello che prese corpo nelle politiche di ordine pubblico dell’Antico Regime e si è perfezionato nelle società borghesi dell”800. La condanna a pene detentive non esclude benefici che mirano al superamento della condizione di separatezza e di abbandono, e a promuovere il reinserimento sociale: dalla legge Gozzini del 1986 in poi, sono possibili, per chi le merita, varie “misure alternative” e “pene sostitutive” (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, liberazione anticipata, detenzione domiciliare, permessi-premio, ecc.).
Questo è vero ma, a parte le umiliazioni cui talora ci si sottopone per ottenere il “rapportino” favorevole alla concessione del beneficio, si tratta per l’appunto di misure alternative al carcere, cioè di misure non carcerarie. Questa è la riprova d’una ovvietà: il carcere è il carcere e, per sfuggire alla sua logica, occorre il non-carcere. Per venire incontro a ciò che la dignità implica bisogna uscire dal carcere. Il carcere è la sanzione ufficiale dell’indegnità delle persone. Mentre tutto cambia, il carcere è ancora il centro del sistema delle sanzioni. La sua funzione è quella del capro espiatorio dei mali della società.
Possibile che questo retaggio del mondo premoderno resti insediato al centro del rapporto – un rapporto la cui necessità non può negarsi – delitto- castigo, delinquente-sicurezza? Non ci sorprende che, su una questione cruciale come quella delle sanzioni penali, si sia fermi a una soluzione immaginata in una società dell’esclusione sociale come quella dello Stato assoluto, in cui ha svolto la funzione di simbolo di dominio?
Cresce l’attenzione per il miglioramento delle condizioni nelle carceri e per l’attuazione e il sostegno delle misure alternative: enti locali, Università, associazioni di volontariato vi si dedicano a livello locale, nazionale ed europeo.
Si vogliono riforme di contorno, ma il carcere resta ad occupare il centro della scena. Diciamo che la commissione d’un crimine fa sorgere nel colpevole il dovere di “pagare il suo debito” alla società. Il carcere è un modo efficace di saldare questo debito? Evidentemente no. È solo il modo di soddisfare una pulsione sociale che richiede segregazione ed espiazione attraverso il dolore.
Che cosa ne ottiene la società, se non la moltiplicazione di figure come quella del folle geraseno che si chiamava “legione” (perché erano in molti) del racconto evangelico di Marco (5, 1-20), oggetto della magistrale interpretazione di Jean Starobinsky (Il combattimento con Legione, in Tre furori, SE, 2006, pagg. 66 e sgg.) e di René Girard (Il capro espiatorio, Adelphi, 1987, pagg. 257 e sgg.)? Non sarebbe più coerente una sanzione restitutoria e risarcitoria del danno commesso, con gravosi interessi che intacchino le stesse condizioni di vita del condannato il quale, dopo la condanna, non possa disporre delle medesime di prima?
Che lo costringano a vivere, ma cambiando vita? Diciamo anche che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa.
Studi sono in corso, promossi anche da raccomandazioni internazionali. Si tratta di una prospettiva nuova e antichissima al tempo stesso che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico. Qualcosa si muove, nella giustizia minorile, nei reati punibili a querela. Ma molto resterebbe da fare.
C’è una spiegazione del tradizionale insufficiente interesse della classe dirigente per questi temi. Nel nostro mondo gli status sociali sono aboliti, ma non rispetto al carcere. Il carcere è per chi, nella vita, ne ha già viste di tutti i colori, cioè per i predestinati, coloro che stanno ai margini. Ci immaginiamo uomini della grande finanza, della grande industria, della grande politica che dividono i pochi metri d’una cella con persone “comuni”, che si arrampicano sulla brandina, che usano il bugliolo unico per ogni cella (dove ancora esiste), che tendono le mani fuori delle grate, che magari devono rivolgersi all’agente di custodia chiamandolo “superiore” (dove è ancora così)? Se ci sono, sono eccezioni che confermano la regola. Quando i legislatori legiferano, i governanti governano, gli amministratori amministrano vale una sorta d’implicita divisione psicologica: trattano di problemi estranei alla loro vita, che suppongono non possano riguardarli. Si spiega che non ci sia urgenza di affrontarli.