Detenuto scarcerato perché la cella non rispetta gli standard europei

CellaSolli

di Massimo Mugnaini
La Repubblica, 24 marzo 2015

“A Sollicciano violati i diritti umani”. Non è l’allarme lanciato dalle associazioni che si battono per i diritti dei detenuti, né la denuncia di qualche politico in visita al carcere fiorentino. Stavolta a mettere nero su bianco che l’istituto di pena di via Minervini ha violato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è un giudice che, proprio per questo, ha scarcerato anticipatamente e risarcito un detenuto. È la prima volta a Firenze. Durante la sua reclusione a Sollicciano, ha infatti riconosciuto il magistrato di sorveglianza Susanna Raimondo nell’ordinanza con cui ha accolto il ricorso presentato dall’avvocato di I. S., quest’ultimo ha patito una “detenzione inumana e degradante” in violazione dei parametri europei sui diritti umani. Nello specifico, dell’articolo 3 della Convenzione (Cedu) che recita: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a trattamenti inumani o degradanti”. La decisione del giudice farà da apripista ai ricorsi di centinaia di reclusi, a Sollicciano come altrove in Toscana, che mirano a scarcerazioni anticipate e risarcimenti economici dallo Stato. Alcuni ci provano già da mesi, ingolfando l’Ufficio di Sorveglianza di Firenze con decine di reclami pendenti. “Finalmente! C’è un giudice a Berlino! – gioisce il garante dei detenuti Franco Corleone – sulle richieste di risarcimento c’erano stati solo rigetti. Rotto il ghiaccio, speriamo che a questa prima sentenza ne seguano molte altre”.

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Il carcere va abolito

sciacca

di Luigi Manconi
Internazionale, 17 marzo 2015

Mercoledì 11 marzo un internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto si è tolto la vita impiccandosi nel bagno. Nello stesso giorno, appena più in là, un detenuto del carcere di Sciacca ha preso la stessa decisione.

Sono solo gli ultimi due componenti della lunga teoria di morti che attraversa le strutture detentive del nostro paese. Terminare la propria esistenza in carcere non costituisce un fatto episodico, bensì rappresenta un vero e proprio parametro e un asse portante dell’attuale sistema della reclusione.

Se non esiste la pena di morte, esiste la morte per pena. Nel corso del 2014, i suicidi sono stati 44, e 88 i decessi per “cause naturali”; nei primi mesi del 2015, nove i suicidi e nove i morti per altre ragioni. Proprio per questo occorre pensare (e finalmente realizzare) il superamento del regime carcere. Anche se nella mentalità collettiva non è immaginabile una pena che prescinda dalla reclusione, non è sempre stato così.

Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà, all’interno di un perimetro chiuso e di una cella serrata, per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun’altra parte e tanto meno nella costituzione italiana.

È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall’autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate che incrudelivano sui corpi nell’ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui “dolcezza” avrebbe fatto decadere le punizioni più atroci.

La nostra carta, all’articolo 27, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto di indurre il sospetto che essa sia – in sostanza – una pena inumana. E d’altra parte è incontestabile che la pena detentiva – nella grande maggioranza dei casi – non tende alla “rieducazione” del condannato, ma costituisce una sua degradazione fino a segnarne tragicamente il destino.

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Il primo permesso premio… dopo 24 anni

Carmelo_musumeci

Credo che tutti, o quasi, hanno paura della morte. Colui che però non ne ha, o ne ha meno, è l’uomo ombra, perché la pena dell’ergastolo ostativo non solo ti fa male, ma ti annienta. E lo fa lentamente. Un po’ tutti i giorni. E un po’ tutte le notti. Fino alla fine dei tuoi giorni e delle tue notti, perché l’ergastolano passa il tempo in attesa di crepare (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com)

La pena dell’ergastolo avvelena lentamente e inesorabilmente la tua esistenza, facendo attenzione però a non ucciderti. Ma se tenti di resistere è peggio per te, perché poi rischi di diventare matto.

Questa terribile condanna ti porta via i sogni ma incredibilmente ti lascia la vita. Probabilmente per farti soffrire di più, perché aspettare un giorno che non arriverà mai conduce alla follia.

Gli ergastolani vivono in una realtà tutta diversa dagli altri detenuti perché un uomo ombra deve scegliere tra la rassegnazione e la speranza. Io ho continuamente cercato di resistere fra l’una e l’altra, ma il mio cuore ha sempre preferito l’assurdità della speranza. Ed io in tutti questi anni gli ho sempre ricordato che gli ergastolani ostativi ai benefici hanno molte meno possibilità di finire la loro esistenza vicino ai loro cari di quante ne avevano gli internati nei campi di concentramento. Almeno loro avevano la speranza che con la sconfitta della Germania i vincitori li liberassero. Noi invece non abbiamo nessuna speranza, perché nessuno verrà mai a liberare noi. E la cosa più disumana è che non ci ammazzano, ma ci tengono in vita nonostante per un ergastolano ostativo ad ogni beneficio penitenziario non rimanga altro che prepararsi a morire in carcere.

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“Papà era un bandito”, una favola dei tempi moderni

“Papà era un rapinatore di banche
Ma non ha mai fatto male a nessuno
È che gli piaceva vivere in quel modo
E rubare il vostro denaro”

Papà era un bandito, di Maria Chiara Perri, è la storia di una famiglia atipica con precedenti criminali raccontata dal punto di vista di Michan, un bambino di quattro anni accudito dal padre diciannovenne. Senza moralismi e con un pizzico di ironia vengono trattate tematiche delicate come quelle della devianza giovanile e degli effetti della reclusione in carcere sui detenuti e sui loro famigliari. I De Vita, protagonisti del romanzo, commettono tanti errori ma sono uniti da un forte legame di affetto e solidarietà reciproca in un contesto economico e sociale difficile. Il libro propone una riflessione ai ragazzi che hanno vissuto esperienze di devianza e può avvicinare i lettori alla conoscenza di esperienze, come quelle del carcere e del disagio giovanile, vicine ma troppo spesso nascoste.
Sinossi: Jude ha diciannove anni, origini irlandesi, cappuccio della felpa calato sulla fronte. Se ne va in giro con la sua bici, All Star viola ai piedi e zaino in spalla. Lo accompagna Michan, un bimbo color latte macchiato con una testa piena di riccioli. Sono papà e figlio. La loro è una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi, con un nonno irascibile che nasconde un passato e uno zio metallaro alle prese con paturnie adolescenziali. Basta una bravata di Jude per sconvolgerne i già precari equilibri. Tra streghe, suore e biberon alla Coca-Cola, è il piccolo Michan che ci racconta con ironia la storia di un Papà Bandito. Una favola moderna che prende vita in una città fredda il cui cuore pulsante è nei suoi angoli più bui, tra quartieri popolari, covi e fortezze bazzicati dai nostri scalcagnati eroi.

Genere: Narrativa Contemporanea, Young Adult

Pagine: 190

Formato: Ebook (PDF, Epub, Mobi)

€2.99

Info: http://www.natividigitaliedizioni.it/prodotto/papa-bandito/

 

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Lettere: aiutate Alfio, è ridotto a un vegetale, ma è in cella da 24 anni

Il Garantista, 18 febbraio 2015

Non è capace di intendere e di volere, non sa dove si trova né perché: sua madre non riesce più ad aiutarlo. La lettera che pubblichiamo è stata scritta da un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione di San Gimignano. L’avevano inoltrato, prima della scadenza del suo mandato, al presidente della Repubblica Napolitano per chiedere la Grazia per un loro compagno, Alfio Freni. È un ergastolano, entrato in carcere da giovanissimo a 19 anni, e ininterrottamente detenuto da 24 anni.

Ma non è una persona come tutti gli altri perché Alfio ha gravi problemi mentali. Chi in carcere lo incontra racconta di una persona chiusa, estremamente remissiva, diffidente di tutto e di tutti e sembra spaventato dall’idea che vogliano da lui “confessioni: non comprende dove si trova, non sa difendersi, non si fa difendere.
È un uomo completamente abbandonato dalla famiglia. A suo tempo era seguito solo dalla madre, ma ora è anziana, ammalata e non ha soprattutto risorse economiche per aiutarlo. A tratti quel che ha dentro esplode in comportamenti violenti e spacca tutto quello che ha in cella, per poi finire quindi isolamento con altrettante denunce per danni.
I suoi compagni di detenzione sono sconvolti dalle sue condizioni, soprattutto trovano incomprensibile l’atteggiamento delle istituzioni. E quindi hanno preso a cuore il suo caso e si sono rivolti al presidente della Repubblica. Hanno deciso di non rimanere indifferenti, a differenza delle istituzioni che hanno semplicemente rinchiuso Alfio e buttato via la chiave. Per sempre. Ci auguriamo che l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella prenda a cuore questo caso.

Illustrissimo Presidente della Repubblica Italiana…

Signor Presidente, siamo dei detenuti della Casa di Reclusione di San Gimignano (Siena), le scriviamo affinché interceda con un atto di Clemenza e di Grazia nei confronti di un detenuto di questa Casa di Reclusione.
Le nostre parole sono mosse soltanto dalla compassione e dall’umanità che proviamo verso quest’uomo, il quale è entrato poco più che maggiorenne ed è da 24 anni detenuto ininterrottamente. Lo stesso, attualmente, per problemi “mentali” non ha alcuna possibilità di difendersi, in balia di se stesso oltre che del sistema giudiziario, e privo della capacità di intendere e di volere.
Un diritto questo garantito dalla nostra Costituzione, sia dall’art. 3 (che assicura pari dignità sociale a tutti i cittadini davanti alla legge), sia dall’art. 27 (dove si dice che le pene non possono consistere in un trattamento contrario al senso di umanità, tendendo alla sua rieducazione). Come detenuti, e in quanto tali cittadini, anche se “ultimi degli ultimi” di questa società, ci appelliamo ad Ella, massima carica Istituzionale Garante della Costituzione, proprio in nome dell’imprescindibile diritto alla dignità, ed umanità di tutti gli uomini, nessuno escluso. Le scriviamo, di conseguenza, per porre fine ad un’infinita sofferenza di una vita umana, ormai non più consapevole della realtà in cui vive.

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