Le sbarre nei sogni d’infanzia. Vite di donne e bimbi reclusi

LE LORO CARCERI – L’Università Roma Tre organizza un corso di studi nel braccio femminile di Rebibbia. Nel penitenziario romano Erri De Luca e Piero Pelù hanno presentato il film «Tu non c’eri»

Patrizio Gonnella Edizione del 24.05.2017 il manifesto

Sarebbe bello un giorno avere tempo, tanto tempo, per raccontare le storie, tragiche, assurde, tristi di chi finisce in carcere. Biografie che ci aiuterebbero a comprendere fino in fondo quanto il sistema penale sia selettivo, classista, crudele, cieco. Le storie di donne detenute sono ancora più esemplari, rispetto a quelle dei maschi. Le donne in carcere sono meno del 5% dell’intera popolazione detenuta. In quanto poche, si potrebbe partire da loro nella costruzione di un grande archivio di storie di vita spezzate dalla reclusione.

Il carcere femminile è per sua natura meno rude di quello maschile. Le storie che si incontrano non sono però meno tragiche. Vi si trovano donne condannate ingiustamente in quanto ritenute complici di reati infami, mogli di uomini anche loro ristretti in prigione, madri di bambini i quali a volte vivono fuori con i loro nonni altre volte sono dentro nei primi anni di vita reclusi, da innocenti, insieme alle loro mamme.

SE SI TRASCORRE una settimana in una prigione di storie se ne incrociano tante. Questa opportunità è stata data a me e a trenta studenti dell’Università di Roma Tre iscritti al corso di «prison law clinic», un corso nel quale si studiano casi e si cercano risposte, soltanto a volte legali, più spesso di buon senso. Nel carcere femminile di Rebibbia abbiamo tenuto un intero corso universitario grazie alla disponibilità della direttrice e di operatori che non si sono fatti consumare dal burn out che colpisce chi lavora in luoghi così duri e stressanti e hanno mantenuto intatte motivazioni e passione. Motivazioni e passione che, in quei giorni densi e ricchi, sono stati trasmessi a giovani studenti, anche loro motivati e appassionati. Sperando che un giorno venga bandito un nuovo concorso per direttore penitenziario. Sono vent’anni che non si assume nessuno.

A REBIBBIA FEMMINILE ci sono 330 donne detenute di cui più della metà straniere. Tutti i giorni gli agenti di polizia penitenziaria ci accoglievano in portineria, prima sorpresi e poi simpaticamente abituati a questo gruppo di ragazze e ragazzi che andavano a studiare in prigione, dotati di sola penna e quaderno, come nei tempi passati, visto che dentro cellulari, tablet e pc non potevano essere portati. La classe era nel reparto detentivo e ogni giorno educatrici, insegnanti, detenute ci hanno raccontato storie vere. Storie di processi finiti male, di detenute che vogliono ritornare nel loro Paese d’origine ma, nonostante tutta la retorica più becera sull’immigrazione, non ce le mandano, di detenute straniere che invece vorrebbero restare in Italia e che probabilmente a fine pena saranno espulse.

POCHI GIORNI PRIMA A REGINA Coeli, carcere maschile, davanti agli occhi stupiti e dispiaciuti della stessa direzione un detenuto peruviano, definito detenuto modello, tanto che gli era stato concesso di lavorare all’esterno, con due figli che vivono in Italia, è stato espulso. Aveva prospettive di lavoro concreto una volta espiata la pena. Fuori aveva due figli da mantenere e da amare. Ma la legge è inflessibile. Via dall’Italia. Altro che bel Paese. Altro che pena che deve tendere alla rieducazione. Ora i figli sono in Italia e lui in Perù. È stato così realizzato un capolavoro di umanità. «Ero straniero, l’umanità che fa bene» è una campagna, promossa tra gli altri dalla radicale Emma Bonino e don Virgilio Colmegna, per una legge di iniziativa popolare che vuole cambiare la narrazione sull’immigrazione, modificando le parti peggiori della legge Bossi-Fini. La nostra politica sull’immigrazione, stupida e cattiva, caccia chi vuole restare e trattiene chi se ne vuole andare.

NEL CARCERE FEMMINILE di Rebibbia l’atmosfera non è pesante. Chi lo dirige prova a trasmettere calma e serenità. Quando Piero Pelù ed Erri De Luca hanno presentato un cortometraggio tratto dal bellissimo racconto «Tu non c’eri» intorno al rapporto padre-figlio, nel teatro si respirava un’aria libera, normale, non di censura. Le detenute prendevano la parola e dicevano quel che loro pareva, le poliziotte cantavano insieme a Pelù che si accompagnava con la chitarra elettrica di mio figlio Nicola, che l’aveva lasciata scordata. Uno squarcio di vita normale, non finto o artefatto. Di solito ciò in un carcere accade quando dentro non regna la paura. Bisogna sempre diffidare di un istituto dove regna il silenzio perché vuol dire che quella prigione è governata con il terrore.

Mentre gli studenti di Roma Tre seguivano il loro corso universitario, le detenute andavano a scuola. Una di loro, di origine rom e non giovanissima, ci ha raccontato in modo entusiasta le mille cose imparate nella loro classe di scuola media. Ci diceva che per la prima volta si trovava dietro un banco di scuola.

È questo un carcere modello? Carcere modello è una brutta parola. Il carcere è sempre carcere. Non può che essere sofferenza, essendo inevitabilmente una pena. È privazione non solo della libertà. Ma ha il dovere di non imporre sofferenze inutili, ulteriori, gratuite. Purtroppo in molte carceri d’Italia, invece, si pensa che i custodi siano arbitri della vita dei loro custoditi. Quando capita invece di trovare chi gestisce un carcere secondo ragionevolezza, ispirandosi ai principi di responsabilità e normalità, ci si sorprende.

Studiare fa bene. Eppure non è mai stato indagato in Italia il rapporto tra sicurezza e educazione, tra l’istruzione in carcere e il tasso di recidiva. Gli studi statistici sulla recidiva sono pochi e non sempre approfonditi.

MI È CAPITATO DI INCONTRARE professori universitari, indignati e seccati perché costretti ad andare a fare esami in carcere. Non sempre l’accademia considera le carceri luoghi di insegnamento. A Roma, fortunatamente, invece, ciò avviene. Grazie alla determinazione del prof. Marco Ruotolo, l’Università di Roma Tre ha addirittura organizzato un Open Day presso il carcere romano di Rebibbia (quello maschile questa volta) in modo da illustrare ai detenuti la complessa offerta formativa proposta. Un’offerta che si compone di tanti tasselli.
Una offerta alla quale potranno aderire anche le donne, sperando che un giorno si superi lo steccato e possano studiare, maschi e femmine, in una stessa aula. Nella vita normale, d’altronde, ciò accade.

(Inchiesta sulle carceri italiane 2/P. Continua)

Da: https://ilmanifesto.it/le-sbarre-nei-sogni-dinfanzia-vite-di-donne-e-bimbi-reclusi/

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Convegno Sistema repressivo penale: un passo indietro?

Il 22 marzo 2017 al Polo Universitario di Novoli, per iniziativa della European Law Students Association ELSA si è tenuta un piccolo Convegno sul “CARCERE”  al quale, oltre a due professori della Scuola di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Firenze – Michele Papa e Paola Felicioni – hanno partecipato la dott.ssa Antonietta Fiorillo, che ha a lungo operato a Firenze e oggi è presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, e l’avvocato Michele Passione, dell’Osservatorio Carceri dell’Unione nazionale delle Camere Penali. Il pubblico numeroso era composto in massima parte da studenti. Dopo la cordiale introduzione del Prof. Michele Papa, ordinario di Diritto Penale,  l’incontro si è concretizzato in un sostanziale dibattito a due voci tra la Fiorillo e Passione, che – al di là di divergenze più annunciate che effettive – hanno mostrato una sostanziale concordanza di opinioni.

La Fiorillo ha messo subito l’accento sugli spaventosi scarti che esistono nel nostro ordinamento fra il livello legislativo e quello amministrativo concreto. La Legge del 1975 aveva posto l’Italia all’avanguardia fra tutti gli altri paesi, molti dei quali vi si sono successivamente ispirati, ma non ha avuto l’effetto dichiarato, soprattutto per quanto attiene all’effetto risocializzante del carcere,  perché non è stata sostenuta da adeguate risorse, “come quasi tutte le leggi in Italia”. I detenuti continuano ad essere troppo numerosi e le risposte alle istanze di misure alternative sono troppo spesso negative, anche per via del clima culturale, che impedisce  ai cittadini di capire che la risocializzazione è interesse della Comunità, mentre viceversa il rischio della recidiva è altissimo proprio laddove tutta la pena sia scontata in carcere. Gli assistenti sociali sono pochi, pochi gli educatori, quasi impossibile l’organizzazione dei Gruppi  di osservazione e trattamento. Sollicciano è stato descritto come un carcere in condizioni particolarmente critiche, sia per quanto riguarda la struttura – irriformabile:  secondo la Fiorillo va abbattuto! – sia per quanto riguarda le risorse umane, in particolare il numero esiguo di educatori.

L’intervento di Passione ha messo a fuoco altri importanti punti critici, a partire dal fatto – a suo avviso gravissimo – che i Magistrati non conoscono il carcere. Persino molti Magistrati di sorveglianza non vanno in carcere. Eppure andrebbe ricordato il monito di Calamandrei su Il Ponte  del 1949:  “Bisogna aver visto”. Adriano Sofri ha scritto del trattamento degradante che deve subire chi entra in carcere, che costituisce comunque un’ingiustizia commessa anche nei confronti di chi è colpevole e lo rende degno di compassione e di difesa, per concludere  che “Il fine della pena è la fine della pena”.  Il fine riabilitativo della pena è comunque stabilito in modo inequivoco dalla Costituzione, cosicché – secondo Passione – i quasi 1700 ergastoli dell’Italia odierna,  quadruplicati dopo la stagione stagista, sono davvero troppi. Si tratta per la maggior parte di ergastoli ostativi, che prevedono il dubbio istituto della collaborazione. Inoltre troppo spesso si entra in carcere da presunti innocenti, per motivi di cautela. E ancora, il Tribunale della Libertà è un eufemismo: a fronte di un’evidente clima giustizialista, non libera nessuno.

Ancora, ricorda Passione, citando il Garante Nazionale per i Diritti dei detenuti e delle persone private della libertà Mauro Palma che proprio in questi giorni ha fatto la sua prima relazione al Parlamento, occorre fare un’adeguata pulizia semantica, che abolisca i termini infantilizzanti o antiquati che sono in uso nelle carceri e  segnano una separazione dei detenuti dal mondo.

Sul fatto che i Magistrati di Sorveglianza paradossalmente rifuggono dal carcere concorda la Fiorillo, la quale sostiene anche che molti Magistrati non conoscono le norme del Codice di Procedura Penale – ed è altrettanto paradossale, aggiungo io! –  Anche sui risarcimenti previsti dall’art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario  – una norma di per sé mal scritta – molti Tribunali non hanno operato correttamente. E che dire poi dell’incapacità dell’Amministrazione di cogliere le occasioni? La Regione Toscana aveva stanziato una somma importante per il recupero di 200 detenuti tossicodipendenti, ma solo una sessantina sono entrati nel programma, perché “non c’erano domande” dal carcere.

Un’ultima affermazione di Passione è particolarmente importante per Pantagruel, che gestisce l’art. 32: la gestione ASL avrebbe peggiorato le condizioni dei detenuti riguardo al diritto alla salute, rispetto a quando questo era gestito direttamente dal sistema penitenziario.

Infine, è un coro di critiche alla conduzione di Sollicciano:  malcostruito, sporco, addirittura peggiore delle Murate;  alla Fiorillo è capitato di dover chiedere al volontari di supplire alla carenza grave di prodotti per la pulizia personale dei detenuti.

Gli interventi del pubblico hanno riguardato questioni come la libertà di informazione nella carceri, la situazione degli extracomunitari e gli eventuali reati sessuali.

La prof.ssa Felicioni, docente di Diritto processuale penale, concludendo, ha avuto qualche accento giustizialista nell’analisi del ruolo del carcere e si è dichiarata ostile allo “sfoltimento selvaggio” per effetto di liberazioni anticipate, arresti e sospensioni di pena, dicendosi piuttosto favorevole all’ampliamento del campo della depenalizzazione.

(Maria Tinacci Mossello – volontaria Ass. Pantagruel)

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