La “deportazione” dei detenuti di Padova

ristetti

da Ristretti News Speciale

Chiude la sezione di Alta Sicurezza di Padova
Una “deportazione” che spezza tante vite, interrompe percorsi, tronca legami famigliari faticosamente ricostruiti

I detenuti che hanno passato anni della loro vita in regime di 41 bis e poi di Alta Sicurezza sanno bene che cosa sono i trasferimenti improvvisi che ti distruggono anche quel po’ di vita che ti eri costruito faticosamente in un carcere. Noi eravamo convinti che l’Amministrazione penitenziaria applicasse finalmente la circolare del 2014 “Disposizioni in materia di trasferimenti dei detenuti” riducendo al minimo i trasferimenti, non trincerandosi sempre dietro i motivi di sicurezza per giustificare gli spostamenti di persone detenute da un capo all’altro dell’Italia, senza nessuna preoccupazione per le loro famiglie, costrette a viaggi sfiancanti, costosi, per vedere i loro cari per poco tempo in sale colloqui squallide. Il vocabolario definisce la deportazione come una “pena consistente nella relegazione del condannato in un luogo lontano dalla madrepatria, con privazione dei diritti civili e politici”: ecco, certi trasferimenti assomigliano tanto a deportazioni, e privano i detenuti di tutto, anche del diritto a preservare i loro affetti.
Quelle che seguono sono le testimonianze di detenuti che, dopo anni passati in carceri di massima sicurezza lontano dalle famiglie, sono arrivati a Padova, dove sono riusciti a ricostruire i legami spezzati e a dare un senso alla loro carcerazione, ma ora pare che chiuderanno davvero la sezione di Alta Sicurezza, e chi vi è rinchiuso verrà trasferito, a Parma, a Sulmona, a Asti, a Opera, in Sardegna, e perderà di nuovo quel po’ di umanità che aveva ritrovato. È desolante che le persone detenute troppo spesso siano trattate come pacchi e spostate senza avere la minima possibilità di decidere qualcosa della loro vita. Come se la perdita della libertà significasse perdere anche la dignità propria di ogni essere umano.

Trasferimenti che distruggono drammaticamente i legami famigliari, di Gaetano Fiandaca

Dopo quasi otto anni trascorsi nella Casa di reclusione di Padova, nei prossimi giorni sarò trasferito, poiché la sezione di Alta Sicurezza dove attualmente mi trovo sarà chiusa per motivi a me ignoti, che sicuramente riguardano delle convenienze ministeriali, ma che non rispettano per niente le vite delle persone. Questo immotivato trasferimento comporterà un totale azzeramento di quello che è stato il mio percorso in questo istituto, il quale mi ha dato la possibilità di crescere sul piano culturale e ha reso i contatti con i miei familiari molto più umani, cosa che verrà meno se verrò trasferito in altro luogo.  (altro…)

Approfondisci

Gli internati sono persone, non pacchi

di Giovanni Augello

Redattore Sociale, 31 marzo 2015

“Soddisfatti a metà”. La data del 31 marzo 2015, ultimo giorno in Italia per gli Ospedali psichiatrici giudiziari, è “solo una tappa”. Ora i nodi da sciogliere passano alle regioni e l’attenzione, oltre che sugli internati che lasceranno le strutture, si sposterà sui nuovi ingressi e sulle Rems, strutture che preoccupano non poco il mondo delle associazioni.

È questo il bilancio tracciato da Stefano Cecconi, coordinatore della campagna Stop Opg, a poche ore dalla data fissata per il superamento degli Opg dalla legge 81 del maggio 2014. “Siamo soddisfatti, ma non ci siamo ancora spiega Cecconi. Ci sono resistenze. Le regioni chiedevano un rinvio al 2017. Per questo, fin dalle prossime ore, occorre organizzare il commissariamento di quelle regioni in ritardo perché non ci siano persone bloccate perché le regioni non hanno voluto organizzare quello che dovevano fare in questi mesi”.

Ad oggi sono circa 700 gli internati. Secondo la seconda relazione trimestrale al Parlamento sul programma di superamento degli Opg di febbraio, al 30 novembre 2014 gli Opg contavano 761 persone. Un dato che è quasi la metà di quello del 2012 (quando se ne contavano circa 1.200), ma che sembra non tranquillizzare le regioni. Per Cecconi, però, occorre far chiarezza: ci sarà bisogno di una certa gradualità nella chiusura.

“Ci vorranno alcuni giorni spiega -, perché si tratta di persone e non di pacchi. Una parte di loro potrà già essere dimessa, perché ci sono le schede di dimissione pronte, altri saranno trasferiti spero temporaneamente in queste Rems, che sono pur sempre strutture di tipo detentivo. Rems vuol dire residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza”. Per Cecconi, però, quel che conta è che sia partito “un processo che non può essere fermato”. (altro…)

Approfondisci

Detenuto scarcerato perché la cella non rispetta gli standard europei

CellaSolli

di Massimo Mugnaini
La Repubblica, 24 marzo 2015

“A Sollicciano violati i diritti umani”. Non è l’allarme lanciato dalle associazioni che si battono per i diritti dei detenuti, né la denuncia di qualche politico in visita al carcere fiorentino. Stavolta a mettere nero su bianco che l’istituto di pena di via Minervini ha violato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è un giudice che, proprio per questo, ha scarcerato anticipatamente e risarcito un detenuto. È la prima volta a Firenze. Durante la sua reclusione a Sollicciano, ha infatti riconosciuto il magistrato di sorveglianza Susanna Raimondo nell’ordinanza con cui ha accolto il ricorso presentato dall’avvocato di I. S., quest’ultimo ha patito una “detenzione inumana e degradante” in violazione dei parametri europei sui diritti umani. Nello specifico, dell’articolo 3 della Convenzione (Cedu) che recita: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a trattamenti inumani o degradanti”. La decisione del giudice farà da apripista ai ricorsi di centinaia di reclusi, a Sollicciano come altrove in Toscana, che mirano a scarcerazioni anticipate e risarcimenti economici dallo Stato. Alcuni ci provano già da mesi, ingolfando l’Ufficio di Sorveglianza di Firenze con decine di reclami pendenti. “Finalmente! C’è un giudice a Berlino! – gioisce il garante dei detenuti Franco Corleone – sulle richieste di risarcimento c’erano stati solo rigetti. Rotto il ghiaccio, speriamo che a questa prima sentenza ne seguano molte altre”.

(altro…)

Approfondisci

Il carcere va abolito

sciacca

di Luigi Manconi
Internazionale, 17 marzo 2015

Mercoledì 11 marzo un internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto si è tolto la vita impiccandosi nel bagno. Nello stesso giorno, appena più in là, un detenuto del carcere di Sciacca ha preso la stessa decisione.

Sono solo gli ultimi due componenti della lunga teoria di morti che attraversa le strutture detentive del nostro paese. Terminare la propria esistenza in carcere non costituisce un fatto episodico, bensì rappresenta un vero e proprio parametro e un asse portante dell’attuale sistema della reclusione.

Se non esiste la pena di morte, esiste la morte per pena. Nel corso del 2014, i suicidi sono stati 44, e 88 i decessi per “cause naturali”; nei primi mesi del 2015, nove i suicidi e nove i morti per altre ragioni. Proprio per questo occorre pensare (e finalmente realizzare) il superamento del regime carcere. Anche se nella mentalità collettiva non è immaginabile una pena che prescinda dalla reclusione, non è sempre stato così.

Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà, all’interno di un perimetro chiuso e di una cella serrata, per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun’altra parte e tanto meno nella costituzione italiana.

È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall’autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate che incrudelivano sui corpi nell’ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui “dolcezza” avrebbe fatto decadere le punizioni più atroci.

La nostra carta, all’articolo 27, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto di indurre il sospetto che essa sia – in sostanza – una pena inumana. E d’altra parte è incontestabile che la pena detentiva – nella grande maggioranza dei casi – non tende alla “rieducazione” del condannato, ma costituisce una sua degradazione fino a segnarne tragicamente il destino.

(altro…)

Approfondisci